Feb05
Il mio calcio...
(Foto dal sito di Gigi Riva - www.gigiriva.it)
Pensando alla vicenda di Matri e di altri calciatori chi incuminzanta con una squadra e accabanta con un'altra e pensando alle regole di questo calcio che non mi appassiona più, ho pensato di pubblicare un articolo che scrissi nel 2002 per l’Unione Sarda e che racconta il calcio che io ho amato…quello della mia infanzia..
Si mangiava presto la domenica!...is culurgionisi ci doppianta calai de pressi; a mezzogiorno e mezzo bisognava già essere fuori di casa se si voleva arrivare puntuali allo stadio.
Da via Roma incominciava il pellegrinaggio dei tifosi che, a piedi, si dirigevano verso il nuovo stadio da sessantamila posti.
Ci fianta cussusu de is biddasa chi arribanta de sa stazioni con borsoni prenus de cosa e’ pappai, zucche secche prenas de binu, campanacci e bandiera rossoblu a coddu.
Is casteddaiusu, tottusu allicchiriusu, ‘ndi calanta dalle tante stradine del centro con il classico cuscinetto rossoblu sottobraccio.
Si percorreva il viale Diaz e, a mano a mano che si avanzava, il corteo era sempre più numeroso: ci fianta i benestanti chi andanta in 600 o in 1100 fiat, mentre is prus mandronisi si piganta su tram; femminasa non si di biianta merasa; perlopiù uomini con prole maschile al seguito.
Durante il tragitto gli adulti analizzavano le potenzialità della squadra che di li’ a poco avremmo incontrato, mentre noi ragazzini ripetevamo le gesta del Cagliari dello scudetto, mio fratello era sempre Gigi Riva, mentre a me toccava sempre fare Comunardo Niccolai.
Elicotteri che volteggiavano sopra lo stadio non cindi fianta, giusto qualche zanzara chi biviara in su canali de mammaranca.
Arrivati al palazzetto dello sport il corteo era compatto; se non fosse per il blu presente nelle tante bandiere pariara de essi a una manifestazione della CGIL.
I ponti di legno si attraversavano lentamente e in rigoroso silenzio, quasi si avesse paura di svegliarli.
Allo stadio si entrava senza perquisizioni e controlli. All’epoca con l’abbonamento di un adulto poteva entrare anche un bambino; mio fratello entrava con mio padre ed io venivo sempre adottato dal primo abbonato senz’e fillusu.
Devo dire che questa agevolazione essendo pitticcheddu l’ho sfruttata per diversi anni finzasa a candu non minci anti bogau a son’e corru...a 23 cun sa barba longa non sei più credibile.
Una volta entrati nell’imponente stadio ci sistemavamo al centro della curva nord. A quei tempi le curve erano strapiene e noi puntualmente vedevamo la partita arrecraccati.
Per proteggersi dal sole si usavano i capellini di carta costruiti sul momento con i fogli del giornale. Io avrei preferito l’insolazione ma la moda era quella e toccava adeguarsi.
I giocatori entravano in campo tra gli applausi del pubblico; non c’erano fumogeni ma quella curva chi pariara prena de murarorisi doveva essere coreografica.
La partita si seguiva tra le battute de calincunu e is fueddus malusu e is frastimusu de calincun’attru.
Ogni tanto, spontaneamente, i tifosi cominciavano a battere le mani e a intonare:” Forza Cagliari...Forza Cagliari”. Non era molto ma faceva il suo effetto.
Quando il Cagliari segnava ci si abbracciava nemmancu si femmusu parentisi; i bambini veniva lanciati in aria e deu una borta dappu accabara in distinti.
Gli arbitri venivano fischiati e apostrofati in diversi modi da “corbagliu” a “pruppu” passando po’ “facc’e sparedda”....In una città di pescatori quelli erano i riferimenti.
A pochi minuti dal fischio finale noi, insieme ad altre migliaia di persone, eravamo già fuori dallo stadio pronti per il rientro.
Deu custa pressi non d’appu mai cumprendia: mio padre ci diceva che era per via del traffico, ma a noi, che andavamo e tornavamo a piedi, del traffico itta sindi frigara?
Se il Cagliari vinceva si parlava di una grande squadra, di un possibile scudetto e che se ci fosse ancora Gigi Riva eravamo già primi in classifica.
Se si perdeva la colpa era degli arbitri, degli avversari fortunati e del fatto che per colpa della nostra condizione di isolani eravamo sempre penalizzati.
Rientrati a casa, dopo aver fatto pesare alle sorelle il privilegio di noi uomini di poter andare allo stadio, si aspettava con ansia “Novantesimo minuto” per commentare una vittoria o per evidenziare la svista arbitrale in caso di sconfitta.
Si andava a letto con in mano la foto della squadra de su Casteddu e fra le tante preghiere la più ricorrente era quella di far passare in fretta le settimane che ci separavano da un altro incontro casalingo per poter andare alla grande festa domenicale che in quelli anni era il calcio.
Da via Roma incominciava il pellegrinaggio dei tifosi che, a piedi, si dirigevano verso il nuovo stadio da sessantamila posti.
Ci fianta cussusu de is biddasa chi arribanta de sa stazioni con borsoni prenus de cosa e’ pappai, zucche secche prenas de binu, campanacci e bandiera rossoblu a coddu.
Is casteddaiusu, tottusu allicchiriusu, ‘ndi calanta dalle tante stradine del centro con il classico cuscinetto rossoblu sottobraccio.
Si percorreva il viale Diaz e, a mano a mano che si avanzava, il corteo era sempre più numeroso: ci fianta i benestanti chi andanta in 600 o in 1100 fiat, mentre is prus mandronisi si piganta su tram; femminasa non si di biianta merasa; perlopiù uomini con prole maschile al seguito.
Durante il tragitto gli adulti analizzavano le potenzialità della squadra che di li’ a poco avremmo incontrato, mentre noi ragazzini ripetevamo le gesta del Cagliari dello scudetto, mio fratello era sempre Gigi Riva, mentre a me toccava sempre fare Comunardo Niccolai.
Elicotteri che volteggiavano sopra lo stadio non cindi fianta, giusto qualche zanzara chi biviara in su canali de mammaranca.
Arrivati al palazzetto dello sport il corteo era compatto; se non fosse per il blu presente nelle tante bandiere pariara de essi a una manifestazione della CGIL.
I ponti di legno si attraversavano lentamente e in rigoroso silenzio, quasi si avesse paura di svegliarli.
Allo stadio si entrava senza perquisizioni e controlli. All’epoca con l’abbonamento di un adulto poteva entrare anche un bambino; mio fratello entrava con mio padre ed io venivo sempre adottato dal primo abbonato senz’e fillusu.
Devo dire che questa agevolazione essendo pitticcheddu l’ho sfruttata per diversi anni finzasa a candu non minci anti bogau a son’e corru...a 23 cun sa barba longa non sei più credibile.
Una volta entrati nell’imponente stadio ci sistemavamo al centro della curva nord. A quei tempi le curve erano strapiene e noi puntualmente vedevamo la partita arrecraccati.
Per proteggersi dal sole si usavano i capellini di carta costruiti sul momento con i fogli del giornale. Io avrei preferito l’insolazione ma la moda era quella e toccava adeguarsi.
I giocatori entravano in campo tra gli applausi del pubblico; non c’erano fumogeni ma quella curva chi pariara prena de murarorisi doveva essere coreografica.
La partita si seguiva tra le battute de calincunu e is fueddus malusu e is frastimusu de calincun’attru.
Ogni tanto, spontaneamente, i tifosi cominciavano a battere le mani e a intonare:” Forza Cagliari...Forza Cagliari”. Non era molto ma faceva il suo effetto.
Quando il Cagliari segnava ci si abbracciava nemmancu si femmusu parentisi; i bambini veniva lanciati in aria e deu una borta dappu accabara in distinti.
Gli arbitri venivano fischiati e apostrofati in diversi modi da “corbagliu” a “pruppu” passando po’ “facc’e sparedda”....In una città di pescatori quelli erano i riferimenti.
A pochi minuti dal fischio finale noi, insieme ad altre migliaia di persone, eravamo già fuori dallo stadio pronti per il rientro.
Deu custa pressi non d’appu mai cumprendia: mio padre ci diceva che era per via del traffico, ma a noi, che andavamo e tornavamo a piedi, del traffico itta sindi frigara?
Se il Cagliari vinceva si parlava di una grande squadra, di un possibile scudetto e che se ci fosse ancora Gigi Riva eravamo già primi in classifica.
Se si perdeva la colpa era degli arbitri, degli avversari fortunati e del fatto che per colpa della nostra condizione di isolani eravamo sempre penalizzati.
Rientrati a casa, dopo aver fatto pesare alle sorelle il privilegio di noi uomini di poter andare allo stadio, si aspettava con ansia “Novantesimo minuto” per commentare una vittoria o per evidenziare la svista arbitrale in caso di sconfitta.
Si andava a letto con in mano la foto della squadra de su Casteddu e fra le tante preghiere la più ricorrente era quella di far passare in fretta le settimane che ci separavano da un altro incontro casalingo per poter andare alla grande festa domenicale che in quelli anni era il calcio.